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Non solo Trump: anche l’Italia scelse i dazi (ma era un’altra globalizzazione)

(Adnkronos) –
Dazi. Non solo oggi e non solo negli Stati Uniti: anche l’Italia post-unitaria ricorre al protezionismo per difendere la propria economia. A partire dal 1881, il Paese (sotto la guida della Sinistra storica) abbandona gradualmente la linea liberoscambista per adottare una politica di dazi sulle importazioni. Una mossa decisiva taglia fuori la concorrenza estera e dà il via – secondo diversi autori – al vero decollo dell’industria nazionale, culminato nel boom produttivo tra il 1896 e il 1908. Ma non senza un prezzo, basti pensare ai "moti del pane". Il cuore pulsante di questa nuova fase economica diventa il cosiddetto 'triangolo industriale' – Torino, Milano, Genova. Ma se il Nord corre, il Sud resta al palo. "Il protezionismo – disse più d'un economista dell'epoca – fu il trionfo degli interessi industriali su quelli agricoli".  "Il nodo economico centrale – spiega all'Adnkronos Andrea Monticini, economista dell'Università Cattolica di Milano – è che la globalizzazione di oggi è molto diversa da quella già esistente alla fine dell’Ottocento". La differenza sostanziale, sottolinea, "sta nelle catene del valore e della produzione, che oggi sono distribuite su scala globale, con fasi produttive localizzate in luoghi molto distanti tra loro". In passato, dice, "per via dei mezzi di comunicazione meno sviluppati e dei costi di trasporto più elevati, non era sostenibile movimentare semilavorati da una parte all’altra del mondo". Secondo il professore "fin dai tempi di David Ricardo, è noto che il commercio internazionale senza dazi tende ad avvantaggiare tutti in termini generali". Ma bisogna distinguere, sottolinea: se è vero che la specializzazione di un Paese genera un beneficio complessivo, è altrettanto vero che chi resta fuori da quella traiettoria rischia di trovarsi in difficoltà. Non si può negare che ci siano lavoratori o interi settori che dalla globalizzazione escono peggiorati rispetto alla situazione precedente. "È il classico trade-off – spiega Monticini – tra crescita ed equità: da un lato c’è la torta che diventa più grande (la crescita), dall’altro il tema di come viene distribuita (l’equità)". L’approccio di Trump, secondo l'economista, appare piuttosto confuso. "La sua retorica – dice – è partita dalla volontà di riportare la manifattura in America, un obiettivo condiviso da molti governi protezionisti. Ma c’è un paradosso evidente: se imponi dazi anche sulle materie prime necessarie per rilanciare quella stessa industria nazionale, stai creando un cortocircuito", sottolinea. Se poi la strategia è davvero quella di riportare l’industria in patria, ad avviso di Monticini, allora diventa inutile anche sedersi al tavolo delle trattative con Trump: "Per raggiungere il suo obiettivo, i dazi deve tenerli alti. Se dopo una negoziazione li abbassasse, tornerebbe al punto di partenza". E i controdazi? Anche su questo le opinioni divergono, ma Monticini è d’accordo con chi sostiene che sarebbero ancora più dannosi. "I dazi, alla fine, non sono altro che una tassa occulta sui consumatori: quelli di Trump gravano sugli americani, quelli europei sui cittadini dell’Ue. Rispondere con nuovi dazi significa farsi del male da soli", sottolinea. 
La vera risposta per l'economista, dovrebbe essere l’opposta: stipulare più accordi di libero scambio con tutti quei Paesi che oggi si stanno allontanando dagli Stati Uniti. Questa è la via per rafforzare il commercio e aprire nuove opportunità. Trovare “nuovi mercati” non è così semplice. Non basta dire: "Non posso più vendere 10 Mercedes negli USA? Allora le vendo in India". Se non si vendeva prima, è probabile che ci fossero già ostacoli strutturali o commerciali. "Non si tratta solo di trovare nuovi sbocchi – spiega il professore – ma di costruire le condizioni politiche ed economiche per farlo, tramite accordi solidi, multilaterali, capaci di reggere nel tempo". (di Andrea Persili)  —finanzawebinfo@adnkronos.com (Web Info)

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