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Femminicidi, non un problema territoriale ma una “guerra” maschile all’emancipazione

Mentre il dibattito pubblico e politico sulla violenza di genere si intensifica, la statistica nuda e cruda ci obbliga a guardare in faccia la realtà: la violenza omicida contro le donne persiste, nonostante l’Italia sia un Paese più sicuro in termini di omicidi totali.

I dati operativi del Servizio Analisi Criminale della Polizia, aggiornati ai primi tre trimestri del 2025, mostrano la gravità della situazione. Nel periodo compreso tra il primo gennaio e il 30 settembre 2025, sono stati commessi 224 omicidi totali, con 73 vittime di sesso femminile. Sebbene questi numeri siano in diminuzione rispetto allo stesso periodo del 2024, la violenza in ambito familiare/affettivo e da partner rimane una piaga: sono 44 le donne che sono state uccise dal partner o ex partner nei primi nove mesi del 2025.

È in questo scenario che si inserisce la ricerca intitolata “Femicides, Anti-violence Centers and Policy Targeting” presentata durante l’incontro “Una prospettiva territoriale sui femminicidi”, su iniziativa della senatrice del Pd Cecilia D’Elia, vicepresidente della commissione femminicidi, e realizzata dall’Università degli studi di Roma “Sapienza”.

Il problema non sembra essere più presente in alcune parti d’Italia o legato a specifiche etnie, ma alla mancata accettazione dell’emancipazione femminile.

Emancipazione femminile: un problema per gli uomini?

Per combattere efficacemente un nemico, bisogna conoscerne la posizione. Ma, come evidenzia il recente studio, curato dai docenti e ricercatori del Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche dell’Università Sapienza di Roma, Augusto Cerqua, Costanza Giannantoni, Marco Letta e Gabriele Pinto, la mappa del rischio di femminicidio in Italia è controintuitiva.

La ricerca, basata sull’analisi di 1.942 casi di femminicidio tra il 2006 e il 2022, ha utilizzato tecniche di apprendimento automatico (Machine Learning, Ml) per prevedere dove la violenza estrema ha maggiore probabilità di manifestarsi. Il primo, cruciale, risultato sfata un mito: non esiste una netta distinzione tra Nord e Sud, né una correlazione diretta con il reddito o il livello di istruzione. Il femminicidio è un fenomeno pervasivo che non conosce confini di classe o provenienza.

La vera sorpresa è che i femminicidi sono significativamente meno probabili nelle aree rurali. Questo dato, in linea con l’”ipotesi di contraccolpo” (backlash hypothesis), suggerisce che la violenza più grave è una reazione maschile alla crescente emancipazione e autonomia economica o politica delle donne.

In altre parole, “là dove ci sia maggiore emancipazione e libertà femminile è generalmente maggiore il rischio di commettere un omicidio”, ha spiegato la senatrice pd Cecilia D’Elia. Un tema culturale, quindi, che pone l’accento sulla necessità di affrontare la questione non solo come un’emergenza di ordine pubblico, ma come problema sistemico legato alla mancata accettazione da parte degli assassini (e potenziali tali) della libertà delle donne.

Centri antiviolenza: opportunità e limiti

I Centri antiviolenza (Cav), si legge nel report, sono strutture vitali che offrono consulenza, supporto legale, psicologico e, nei casi più urgenti, rifugi sicuri. La loro rete è cresciuta, passando a 457 centri in Italia a giugno 2024, con almeno uno in ogni provincia. Per valutare la loro efficacia, lo studio ha esaminato l’impatto dell’apertura dei Cav. I risultati sono chiari, ma complessi:
1. L’apertura di un Cav, in media, non ha ridotto in modo significativo il verificarsi dei femminicidi.
2. L’apertura di un Cav ha ridotto i casi denunciati di violenza sessuale di circa il 20%.

Questo successo sulla violenza sessuale dimostra l’esistenza di un “effetto di riduzione della violenza”. La riduzione dei casi di violenza sessuale è particolarmente significativa nelle province che hanno visto l’apertura del primo Cav in assoluto, evidenziando il valore fondante di queste strutture. L’assenza di un effetto rilevante sui femminicidi o sui casi di stalking e abuso può essere spiegata dal bilanciamento tra l’effetto di riduzione della violenza e un “effetto di segnalazione”, per cui il centro incoraggia un maggior numero di donne a denunciare crimini che altrimenti resterebbero sommersi.

Il nodo critico: dove e quando intervenire

Se i Cav funzionano bene in alcune aree, perché non incidono sull’omicidio estremo? La risposta sta nella loro distribuzione sub-ottimale. I ricercatori hanno confrontato la mappa del rischio di femminicidio, creata con l’machine learning, con l’effettiva presenza dei centri e hanno riscontrato un allineamento solo parziale. Le aree ad alto rischio identificate dai modelli predittivi risultano molto meno coperte.

Questa inefficienza nasce dal fatto che i Cav spesso nascono da iniziative “dal basso”, guidate, cioè, dall’attivismo locale, piuttosto che da un piano nazionale di copertura basato sui dati scientifici. Ironia della sorte, la valutazione ha mostrato che l’impatto positivo sulla violenza sessuale è maggiore proprio nelle aree ad alto rischio identificate dai sistemi di machine learning. Ciò suggerisce che i criteri di targeting devono essere urgentemente rivisti, utilizzando i modelli predittivi per guidare gli interventi e concentrare le risorse pubbliche dove sono più necessarie.

Il ruolo delle istituzioni

Solo unendo il supporto locale (Cav) a un intervento culturale sistemico si potrà sperare di superare il vuoto legislativo che fino ad oggi ha contribuito alla mancata penalizzazione del problema. L’attuale governo sta lavorando per introdurre il femminicidio come reato specifico e combattere in modo più efficace la violenza di genere.

La legge, approvata dal Senato e ora in attesa di approvazione definitiva alla Camera, punisce con l’ergastolo chi uccide una donna in quanto donna, ad esempio per motivi di discriminazione, odio di genere o controllo. In caso di attenuanti, la pena non può scendere sotto i 15 o 24 anni a seconda delle circostanze.

Inoltre, il ddl del ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha posto l’accento sull’importanza di introdurre un’educazione sessuale, all’affettività e all’empatia, con riguardo alla questione femminicidi, e con il coinvolgimento delle famiglie nei percorsi scolastici che si impegneranno in questa direzione.

Popolazione

content.lab@adnkronos.com (Redazione)

© Riproduzione riservata

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